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Commemorazione a Varano borghi per Motta e Contini

11 Aprile 2024

Celebrazione del 80° Anniversario della Battaglia del San Martino

9 Ottobre 2023

25 Aprile 2022 – Discorso dell’oratore ufficiale Giacomo Sansone

5 Maggio 2022

Buongiorno a tutte e a tutti,
ho accettato di intervenire come oratore ufficiale, ritenendolo un dovere prima ancora che un onore, non senza qualche titubanza iniziale dovuta al senso di inadeguatezza di fronte al significato profondo di questa ricorrenza. Ho una formazione giuridica e credo che certi temi debbano rimanere esclusivo appannaggio di chi può affrontarli con rigore storico-scientifico.
Tuttavia, la richiesta, avanzatami anche in qualità di Presidente del Consiglio comunale, organocollegiale soppresso dal fascismo con la riforma podestarile, mi ha indotto a riflettere su quanto sia doveroso per tutti onorare il debito di riconoscenza verso la Resistenza. Ho accolto, pertanto, la proposta dell’ANPI di Malnate e del suo Presidente Germano Corti, a cui desidero rivolgere un caloroso ringraziamento.
Anche io, come tanti, ho avuto un nonno partigiano, Vilmo Guicciardi. Originario di Mirandola, era nato nel 1923 e l’8 settembre 1943, quando il “proclama Badoglio” rese pubblico l’armistizio firmato qualche giorno prima a Cassibile, era appena ventenne. Non poté, però, abbandonarsi alla spensieratezza di quell’età, trovandosi improvvisamente spaesato, nel bel mezzo di una guerra a cui anche lui aveva preso forzatamente parte come militare di leva. Come altri, fortunatamente molti, fece una scelta che oggi giudicheremmo avventata: abbandonato l’esercito, si unì a una brigata partigiana della Bassa modenese. Quella decisione si rivelò vincente. Oggi possiamo dirlo con estrema gratitudine per mio nonno e per i tanti nonni e le tante nonne che dimostrarono il loro valore, dissimulato sotto le spoglie di sprovveduti ventenni, combattendo l’oppressore fascista e l’invasore nazista fino a pagare, in molti casi, con la loro vita e con quella dei loro cari.

Cinque di questi ragazzi tennero alto l’onore di Malnate nella resistenza partigiana e pare doveroso ricordarli anche quest’anno. Sono Ermanno Besani, Achille Motta, Giuseppe Brusa, Emilio Maccazzola e Bartolomeo Bai.

Quest’anno, però, il 25 aprile è profondamente diverso. Viviamo momenti di fortissima preoccupazione – anzi, di vera e propria paura – per le sorti dell’Europa e del mondo, mentre la forza bruta delle armi già dilania l’Ucraina da ormai due mesi, causando centinaia di morti, tra i quali molti bambini, devastazione e un’ondata di profughi. Per la seconda volta in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo i conflitti nei Balcani degli anni ’90, siamo di fronte a una guerra in piena regola. Una guerra in cui è innegabile la presenza di un aggressore e di un aggredito, di chi ha imbracciato le armi per attaccare e di chi lo ha fatto per difendersi.

È parimenti innegabile che le cause di un conflitto non possano essere esaminate con una chiave di lettura semplicistica e riduttiva, ma debbano essere approfondite minuziosamente. Questo, ovviamente, non per offrire inammissibili giustificazioni alle responsabilità di cui dovrà rispondere l’aggressore di fronte alla nazione ucraina e alla comunità internazionale, ma per capire e non ripetere in futuro gli errori del passato, senza dimenticare che la guerra è terribile, ma fa comodo a molti, anche ad alcuni che, quando non si trovano dalla parte degli aggressori, puntano il dito contro l’aggressore di turno, senza peraltro muoverlo, quel dito, a difesa delle vittime.

Di fronte a questo conflitto, abbiamo tutti il dovere di fare qualcosa. Chi ci governa deve lavorare alacremente nell’unica direzione sensata: favorire la deposizione delle armi con uno sforzo diplomatico rafforzato dall’impegno ineludibile dell’Unione Europea. La strada deve essere quella di un rafforzamento dell’Unione che vada di pari passo con la costruzione di una vera politica di difesa comune, nella prospettiva della creazione di un esercito europeo. Questa è la via più volte indicata, tra le altre, dall’autorevolissima voce del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Purtroppo, assistiamo a scelte orientate nella direzione opposta. Se nessuno deve permettersi di mettere in discussione il diritto dell’Ucraina di difendersi, anche con le armi, abbandonarsi a una corsa agli armamenti sotto l’ombrello della Nato è decisione quanto mai pericolosa. Esacerbare ulteriormente le posizioni in campo, cedendo a un bellicistico afflato che andrebbe semmai contenuto, significa gettare benzina sul fuoco, innescando meccanismi i cui parossistici sviluppi potrebbero condurre rovinosamente verso un terzo conflitto mondiale.

«Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2 per cento del Pil per l’acquisto di armi come risposta a questo che sta accadendo, pazzi! La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti […] Con la guerra tutto si perde […]». Sono parole di Papa Francesco, non di uno sfegatato pacifista dalle simpatie anarchiche.

Anche noi persone comuni possiamo fare qualcosa. In primo luogo, dobbiamo astenerci dall’indulgere licenziosamente all’odio nei confronti di Vladimir Putin. Anche se il reato di offesa all’onore dei Capi di Stato esteri è stato abrogato sin dal 1999 e sarebbe quindi lecito, oltreché facile, prodursi in un creativo elenco di ingiuriosi epiteti per apostrofare l’invasore dell’Ucraina, così faremmo soltanto il suo perverso gioco, gettando alla rinfusa semi di odio da cui rischiano di germinare pregiudizi, discriminazioni e sentimenti acrimoniosi. Se la condanna è doverosa, piuttosto che cedere al seducente fascino degli sfoghi sterili dobbiamo produrci in gesti di sostanza.

L’accoglienza ai profughi – oggi improvvisamente decantata anche da chi in passato la ostacolava sfoderando il razzismo più bieco – ma anche l’aiuto alle tante organizzazioni non governative che si adoperano a sostegno della popolazione rimasta in Ucraina per necessità o per scelta.

Ancora, è nostro compito rammentare chi, nel passato, guardava con simpatia alla figura di Vladimir Putin, allo scopo di sfruttarne il dispotico carisma per fini propagandistici. Non dallo scorso febbraio, infatti, la Russia ha un governo definito troppo semplicisticamente “illiberale” che, invece, è massimamente totalitario.

Davvero serviva la guerra in Ucraina? Davvero non bastavano l’annientamento della libertà di stampa, le uccisioni di giornalisti, gli avvelenamenti di avversari politici, le armi imbracciate contro altri Stati?

Riflettere su questo dovrebbe aiutare a capire chi fossero davvero quelli che, forse, ammiravano queste derive tipicamente dittatoriali e imperialistiche, evitando di addossare etichette pesanti a chi non le merita. Coloro che si esprimono per la pace e prendono netta posizione contro la guerra e contro la corsa agli armamenti non possono e non devono essere tacciati di intollerabili simpatie putiniane.

Il ripudio della guerra è consacrato dalla Costituzione della Repubblica Italiana e, se è vero che la stessa Costituzione afferma la sacralità del dovere di difesa della Patria, altrettanto vero è che l’obiezione di coscienza è ormai un diritto sacrosanto riconosciuto in svariati ambiti in Italia, anche e soprattutto in relazione all’utilizzo delle armi. Questo implica che la difesa della Patria possa essere anche disarmata, persino in caso di guerra.

Purtroppo, nel tritacarne mediatico rischiano di finire in molti. Sono state gettate ombre pesanti anche sull’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, approfittando di alcuni interventi del suo Presidente nazionale talvolta sorprendentemente imprudenti e talaltra volutamente travisati. Questi attacchi sono arrivati non da chi ha spesso infangato la Resistenza riducendola a quei soli episodi bui che, comunque, vanno stigmatizzati senza mezzi termini, ma da opinion maker sedicenti democratici che sembrano sempre più propugnare una lettura a senso unico della realtà, come se la diversità di opinioni argomentate fosse inammissibile, al punto che si arriva persino ad affibbiare al prossimo dichiarazioni e visioni lontane da quelle in concreto espresse, con un atteggiamento manicheo poco adatto a chi dovrebbe stimolare l’autonoma riflessione personale.

Non da oggi, purtroppo, la Resistenza è preda di spinte revisionistiche che trovano sponde insospettabili e si rafforzano proprio in quello che non esito a definire relativismo storico.

Mi è capitato di raggelare di fronte a equazioni non solo semplicistiche, ma totalmente sbagliate, che dimostrano come l’ignoranza sia un circolo vizioso da cui è difficile uscire. Partigiano non significa comunista. Partigiano significa “riferito a una parte”, cioè, per estensione, persona che prende una posizione: nel caso di specie, posizione contro il nazifascismo.

Parlare della Resistenza come di un fenomeno ascrivibile alla sola ideologia comunista significa ignorare che nelle fila dei partigiani militarono anche socialisti, azionisti, repubblicani e molti cattolici, tra i quali mi si lasci ricordare Tina Anselmi, più tardi parlamentare democristiana e prima donna a ricoprire la carica di ministro della Repubblica Italiana.

Ancora, vi furono i cosiddetti “partigiani badogliani” o “azzurri”, che non presero parte al Comitato di Liberazione Nazionale, ma diedero un solido contributo alla guerra di liberazione e alla produzione letteraria di Beppe Fenoglio, che proprio in tali formazioni visse la sua esperienza partigiana. L’unica equazione possibile deve essere quella tra Resistenza e antifascismo.

Una Resistenza alimentata anche da tante persone comuni, che presto o tardi ebbero modo di comprendere come il regime fascista avesse tradito qualsiasi ideale patriottico, semmai ne avesse davvero avuto uno. Tra costoro si possono citare, ciascuno con un contributo diverso nei tempi e nei modi, il Brigadiere dell’Arma dei Carabinieri Salvo D’Acquisto, il commerciante Giorgio Perlasca, il funzionario dell’ufficio anagrafe del Comune di Varese Calogero Marrone, i sacerdoti don Pietro Pappagallo e don Primo Mazzolari.

Ho elencato solo alcuni nomi, senza nulla volere sottrarre agli altri. Per comprendere quanto composito sia stato il movimento antifascista, basti pensare, tornando agli aspetti più marcatamente politici, che non v’era accordo nemmeno sulla forma di governo che si sarebbe dovuta sviluppare dopo la Liberazione: questa sarebbe stata definita in parte da un passaggio referendario da cui uscì vittoriosa l’opzione repubblicana e in parte dall’Assemblea Costituente che scelse il parlamentarismo, a rimarcare, dopo un ventennio di partito unico e di culto della personalità, come le decisioni pubbliche debbano essere sempre prese collegialmente.

Oggi, più che mai, dobbiamo impegnarci per riconoscere quello spirito patriottico che la Resistenza ha saputo accendere nel popolo italiano contro ogni aspettativa del regime. Proprio la capacità di unirsi verso un obiettivo comune senza curarsi delle divergenze è l’insegnamento più prezioso che possiamo trarre.

L’unità politico-istituzionale è di basilare importanza. Si badi bene: unità intesa non come appiattimento e annientamento delle differenze e delle sfumature di pensiero, ma come valorizzazione di quelle sfumature.

Senza un solido sostrato valoriale comune, senza un contratto sociale alla base, nessuna proposta politica potrebbe risultare credibile. Eppure, vediamo oggi forze politiche che si fronteggiano con atteggiamento belligerante a ridosso delle elezioni e poi, con grande sorpresa degli elettori di cui avevano stuzzicato i peggiori istinti, stringono alleanze postelettorali, rinnegando l’idea che un sostrato valoriale comune sia fondamentale e, al contempo, accantonando le importantissime sfumature di pensiero, anziché riconoscerne il ruolo di asse portante della democrazia. Esattamente l’opposto di ciò che è auspicabile.

Nella Resistenza, invece, era viva la consapevolezza che muovendo da punti di vista diversi si stesse cercando di raggiungere un comune traguardo, destinato a essere nuovo punto di partenza.

La Democrazia cristiana e il Partito comunista erano quanto di più antitetico si potesse immaginare, eppure hanno saputo unirsi e, in seguito, contrapporsi lealmente, o addirittura collaborare, perché entrambi consapevoli di quanto avere un avversario intelligente e vivacemente critico sia più importante che avere un alleato prono e ossequioso. Così hanno saputo fare, in modi diversi, gli altri partiti dell’arco costituzionale.

Ecco di questa capacità di fare fronte comune oltre ogni differenza rinsaldando l’autentico spirito democratico dobbiamo ricordarci in quest’epoca in cui le accuse, i sospetti e la diffidenza sembrano dominare.

Non serve a nulla demonizzare l’avversario, se poi questi si rivela capace di presentarsi in modo accattivante all’elettorato nelle democratiche competizioni elettorali, mentre chi lo demonizza finisce per ridursi soltanto a puntare il dito senza offrire un’autentica alternativa, svilendo così la propria proposta politica. Figuriamoci, poi, se con quello stesso avversario demonizzato ci si ritrova nella medesima maggioranza di governo.

Impariamo dalla Resistenza, impariamo ad amare il pluralismo, la collegialità e il dialogo. Impariamo a rispettare le idee diverse dalle nostre e a comprendere che la democrazia si nutre di argomentazioni, di proposte strutturate, di un’idea di Italia da sottoporre alla cittadinanza in modo convincente e non di demonizzazione di ciò che è diverso né di proposte estemporanee permeate di populismo che mirano al risalto mediatico senza alcuna valutazione in chiave prospettica.

Impariamo a fare questo e avremo saputo dare concretezza alle parole di Piero Calamandrei “Ora e sempre Resistenza” che vengono spesso adoperate quale autorevole orpello di discorsi intrisi di retorica.

Impariamo a fare questo e avremo davvero fatto qualcosa di utile per prevenire qualsiasi rigurgito di fascismo, sempre pericolosamente possibile.

Viva la Resistenza, viva il 25 aprile, viva l’Italia libera.

25 aprile 2022 – Variazione programma

18 Aprile 2022

 Festa della Liberazione

 Programma completo:

– ore 09.30 raduno in Municipio e formazione del corteo verso il Cimitero di Malnate;

– ore 09.30 raduno presso il Cimitero di Malnate;

– ore 10.00, dopo il deposito corone/omaggio ai Partigiani Caduti, Messa nella cappella-cripta del Cimitero;

– ore 10.30  si salirà dalla scalinata verso la Chiesa parrocchiale e da lì il corteo si porterà in piazza delle Tessitrici dove si svolgerà la cerimonia con intervento delle Autorità, scolaresche, e cittadinanza.

 In caso di maltempo, ci si trasferirà presso la Palestra di via Libia.

 Oratore ufficiale il Presidente del Consiglio comunale Giacomo Sansone.

Tesseramento 2022

9 Marzo 2022

Tessara ANPI 2022

La sezione ANPI di Malnate è aperta tutte le domeniche dalle 10:00 alle 12:00 per il rinnovo della tessera e per tutti coloro che sono interessati a condividere le nostre iniziative.

Presso salone sopra supermercato COOP – Via Marconi – Malnate

Per una nuova fase della lotta democratica e antifascista

7 Dicembre 2021

ANPI Malnate 600_g_1

 “Per una nuova fase della lotta democratica e antifascista”: è l’invito/programma del 17° Congresso dell’ANPI-Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, che si sta celebrando in Italia e che, domenica 21 novembre, è stato al centro del Congresso della Sezione malnatese.

Dopo circa 2 anni in cui siamo stati tutti costretti a limitare attività e incontri, in questo periodo ancora difficile per l’emergenza sanitaria che ci attanaglia, abbiamo potuto però ritrovarci e confrontarci sul nostro essere “democratici e antifascisti” oggi.

La nostra storia, quella che ci hanno lasciato le partigiane e i partigiani, tra cui i 5 martiri malnatesi, ci spinge a guardare sempre avanti, usando responsabilità e spirito critico verso il mondo e il nostro Paese che stanno cambiando.

Siamo consapevoli delle difficoltà e delle incertezze del tempo che viviamo ma, con una visione del futuro, auspichiamo un impegno largo e comune per lo sviluppo e la trasformazione dell’Italia.

Il nostro sistema democratico è fondato sull’antifascismo ma ha bisogno di impegno e vigilanza continui: troppi sono i segnali che si registrano, anche nella nostra provincia, di rigurgiti reazionari e nostalgici (dagli attacchi ad alcuni amministratori locali e ad esponenti Anpi -vedi Azzate- fino ai simboli della Resistenza sul monte S.Martino).

Nell’Europa, particolarmente dell’Est, dominano forze sovraniste e pericolose. Non si può quindi abbassare la guardia. L’Anpi, con i partiti, i movimenti civili e i cittadini deve continuare la sua “missione” affinchè si mantengano e irrobustiscano i valori della Resistenza di ieri e della Costituzione di oggi. Facciamo nostro anche a Malnate questo impegno, innestandolo alle problematiche attuali e più urgenti del vivere quotidiano, dal lavoro alla scuola, dalla salute ai giovani, all’ambiente.

A questo riguardo abbiamo apprezzato gli interventi al Congresso del Consigliere Regionale S.Astuti e della Sindaca I.Bellifemine, rivolti alle tematiche di  stretta attualità, sanitaria e sociale nonché del mondo giovanile.

Parimenti apprezzati i saluti di G.Longo per il Partito Democratico e di I.Monetti per il sindacato CISL, così come la presenza di M.Desiante , presidente SOS Malnate.

Non possiamo sottacere, invece, il disappunto per le assenze di altri amministratori, anche di minoranza e di altre associazioni invitate.

Assicuriamo però che Anpi-Malnate, anche per onorare la memoria dell’infaticabile M.Turra cui la Sezione è dedicata, non abbandonerà il campo dell’impegno antifascista, con occhio rivolto alle giovani generazioni, perché il Paese continui nel solco democratico della Resistenza italiana.

 

COMITATO ANPI-MALNATE

COMITATO DI SEZIONE

6 Dicembre 2021

Comitato di sezione

INTERVENTO INTRODUTTIVO ALL’ASSEMBLEA DELL’A.N.P.I. DI MALNATE IN PREPARAZIONE DEL XVII CONGRESSO NAZIONALE

6 Dicembre 2021

di Riccardo Conte

(vice presidente della sezione ANPI di Varese “Comandante Claudio Macchi”)

(Malnate, 21 novembre 2021)

 

Care compagne, cari compagni,

innanzi tutto voglio ringraziare il Presidente della sezione, Germano Corti, e i membri del comitato di sezione per avermi invitato a questa Assemblea.

Sono lieto di essere qui tra Voi; sono lieto di poterVi conoscere: c’è sempre una dimensione positiva nell’incontro tra persone che si riconoscono in valori comuni e si uniscono per un progetto comune.

Peraltro, il motivo per cui oggi ci incontriamo è proprio quello di un dibattito su un documento congressuale che propone questioni relative ad un progetto comune.

Penso che ci troviamo di fronte ad una grande e complessa sfida: il documento espone una serie di problematiche, che affliggono il mondo contemporaneo, rispetto alle quali si prospettano risposte varie, soluzioni non immediatamente determinabili e probabilmente nemmeno univoche.

Faccio un esempio per chiarezza.

Quando, nel documento, a pag. 30, si afferma – leggo testualmente – che «Il Parlamento deve tornare ad essere specchio del Paese, esaltando la sua funzione di rappresentanza e riconquistando centralità», talché «Va contrastata l’allarmante tendenza a dar vita ad una sorta di presidenzialismo “di fatto”», si dice qualcosa di assolutamente condivisibile in linea di principio.

Sennonché il problema è l’individuazione dei contenuti per arrivare a quell’obiettivo, specialmente in un’epoca in cui prevale un diffuso e pericoloso sentimento di avversione verso la politica, per sfiducia (peraltro, purtroppo, non del tutto immotivata). L’esito del referendum costituzionale dell’anno scorso sulla riduzione dei parlamentari mi sembra sia un sintomo inequivocabile di detta sfiducia: la riduzione rischia di pregiudicare l’effettività della rappresentanza e, infine, la centralità del Parlamento.

Ma anche a prescindere da tale contesto, l’individuazione dei contenuti per difendere questa centralità è difficile. Basti pensare a tutte le discussioni (anche a Sinistra) sul tipo di sistema elettorale da adottare (proporzionale o maggioritario o misto), sulla possibilità o meno di esprimere preferenze e che in numero, nonché, in relazione agli eventuali sbarramenti da prevedere, la misura del quorum da determinare. Tutte cose su cui troppo spesso coloro che sono chiamati a decidere non tengono la barra dritta: le posizioni cambiano al cambiare dei sondaggi elettorali.

Consentitemi, però, un rapido rilievo: una cosa è sicura: la centralità del Parlamento non è direttamente proporzionale al numero di passaggi in televisione con dichiarazioni che non vanno al di là di slogan, né col numero di talk show a cui si partecipa e in cui i partecipanti non possono mai esprimere il proprio pensiero compiutamente per le indegne  bagarre che troppo spesso si scatenano, la cui responsabilità in parte cade anche sui conduttori.

 

Mi sembra, invece, che il documento si spinga – a mio parere in modo condivisibile – ad un maggior dettaglio nella riflessione immediatamente successiva relativa al rapporto tra Stato e Regioni, laddove si legge: «Le Regioni non possono essere poteri separati e conflittuali, ma istituzioni democratiche che valorizzano il territorio di competenza, che operano in concerto col governo nazionale e in cui va esaltato il ruolo del consiglio regionale in quanto massima espressione della rappresentanza politica: a esso deve essere restituita la prerogativa di eleggere il presidente, il cui potere non può non essere bilanciato da opportuni contrappesi. L’Italia risente di decenni di propaganda di secessione delle Regioni ricche e, successivamente, di un federalismo sempre presentato in antitesi e in competizione con lo Stato unitario. Viceversa, occorre ritornare allo spirito costituzionale per determinare un corretto rapporto fra poteri dello Stato, Regioni e comunità locali».

Michele Ainis è intervenuto su La Repubblica del 3 aprile 2020, proponendo un ritorno all’impianto costituzionale originario in tema di Regioni.

Gli scrissi dicendo che condividevo tale tesi.

Consentitemi una breve parentesi.

A me non è mai piaciuta la riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione, cioè nel testo ancor oggi vigente, in cui, tra l’altro, si è omesso ogni riferimento, riguardo all’attività delle Regioni, all’interesse nazionale, espressamente menzionato nell’art. 117 Cost. originario. Le riforma costituzionale del 2016 voleva reintrodurre la previsione di tale interesse, anche se – a mio modesto parere con scelta contraddittoria – aveva fatto venir meno la previsione per cui anche i senatori (la cui gran parte, come ricorderete, sarebbe stata eletta eletti dai Consigli regionali) rappresentano la Nazione. Eppure quei senatori avrebbero potuto essere chiamati a decidere in tema di riforme costituzionali. Ma come? Chi non rappresenta la Nazione può votarne una riforma costituzionale?

Non stiamo parlando di elementi secondari, in un contesto in cui troppo spesso si parla del Presidente della Regione – termine usato dalla Costituzione – come di un Governatore, manco presiedesse uno Stato che fa parte di una Federazione come negli USA. Ma tant’è: qualcuno ha pensato e pensa tuttora – anche se non lo si dice più con chiarezza – di fare dell’Italia uno Stato federale!

 

Vorrei ritornare, però, al clima di sfiducia e disaffezione verso la politica che caratterizza i nostri tempi e in cui cercano di pescare nel torbido i demagoghi populisti e fascio-leghisti, offrendo delle soluzioni tanto immediate quanto meramente apparenti ed  inconsistenti nella complessità del contesto internazionale.

Si pensi, per es., in tema di immigrazione (su cui il documento congressuale si sofferma) alla propagandata «chiusura dei porti» o allo slogan: «aiutiamoli a casa loro».

Ma che significa la «chiusura dei porti»? Forse l’indegno divieto di sbarco a chi fugge dalle guerre, dalle persecuzioni, dalle aberrazioni che avvengono nei lager della Libia? Ma non ci si vergogna ad aggiungere altra sofferenza a chi già soffre?

E poi, a proposito dell’aiutare le persone che emigrano dai loro Paesi, di quale «casa loro» parliamo? Di una «casa» in luoghi distrutti dalle guerre o da calamità naturali? In luoghi in cui – e qui riprendo un principio espresso nella nostra Costituzione – non vi è nessuna possibilità di garanzia del rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo, non vi sono le condizioni di sviluppo della persona, non vi è nessun senso dei «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»?

L’immigrazione è un problema grave e complesso.

Ma certe espressioni di populismo, che:

– cavalcano il malessere di classi sociali qui da noi frustrate dalle crisi economiche e di identità;

– s’intrecciano con forme di razzismo, xenofobia, fatua e falsa esaltazione di tradizioni, improntate da un uso strumentale della religione, quale instrumentum regni;

non solo non risolvono i problemi, non solo prescindono anche dalla considerazione della necessità che le nostre economie hanno di immigrati (che troppo spesso sono sfruttati e sono sostanzialmente ridotti in schiavitù), ma queste espressioni sono già manifestazioni di quello che Umberto Eco definì l’eterno fascismo.

     In altri termini, usando proprio le parole di Eco[1],  «Se pensiamo ancora ai governi totalitari che dominarono l’Europa prima della seconda guerra mondiale, possiamo dire con tranquillità che sarebbe difficile vederli ritornare nella stessa forma in circostanze storiche diverse. … Tuttavia, … c’è sempre un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni» che va oltre il crollo dei regimi nazifascisti e corre lungo la storia dell’umanità, assumendo varie vesti.

Nel documento congressuale si trovano paragrafi dedicati al fascismo, al razzismo, fenomeni la cui riviviscenza oggi è particolarmente evidente e preoccupante, in Italia, ma anche in altri Paesi.

    Io sono convinto che la lotta contro questi fenomeni non finirà mai, proprio per quanto ho detto. Ed è vero – per mutuare un’espressione evangelica – che i poveri li avremo sempre con noi, poiché sempre ci saranno tentativi di sopraffazione, sempre ci saranno tentativi di sfruttamento, che comporteranno povertà.

Ciò che occorre fare è una vasta opera di cultura, che proponga i valori sanciti dalla Costituzione, che è uno dei due bei frutti della Resistenza (il primo è la Liberazione dal nazifascismo), nella consapevolezza che quei valori dovranno sempre essere difesi, come la democrazia: mai dare per scontato che essi saranno definitivamente acquisiti! Sarebbe il presupposto per il loro affossamento.

Di qui l’importanza di un’opera capillare, a cominciare dalle scuole (ma non solo!), della conoscenza della Costituzione e dei suoi principî di libertà, di eguaglianza, di solidarietà politica, economica e sociale, e dei diritti e dei doveri da essa sanciti.

In alcuni passaggi, tuttavia, il documento pare porre delle questioni che non sembrano essere connesse direttamente all’antifascismo.

E, allora, sorge spontanea una domanda: «Perché se ne parla?».

La risposta mi sembra ovvia: poiché tutte tali questioni hanno una correlazione con principî sanciti dalla Costituzione che nasce dalla Resistenza.

Il problema del lavoro e della sua centralità nella prospettiva sociale e personale ha a che fare con la Costituzione, sol che si guardino gli artt. 2, 3, comma 2, 4, 35, 36 e 37 della Costituzione; ma la correlazione coi principî costituzionali è evidente anche in relazione alle questioni dell’immigrazione (artt. 2 e 10 Cost.), della tutela dell’ambiente (art. 9 Cost.), della sicurezza sociale (art. 38 Cost.), di un sistema sanitario efficiente (art. 32 Cost.), di una giustizia efficiente e tempestiva (art. 24 Cost.), di un sistema tributario equo ed efficiente (art. 53 Cost.) e via dicendo.

Il problema serio è il contenuto delle norme che in concreto disciplineranno i singoli settori, perché le norme, le leggi sono sempre il prodotto di lotte tra classi.

Vorrei segnalare un problema che grava sulle nostre teste di cui sono stato informato pochi giorni or sono da attento giurista (il dott. Marco Manunta, già giudice e presidente di sezione del Tribunale di Milano, ora in pensione) che segue le politiche in tema di servizi pubblici (a cui il documento congressuale fa riferimento a p. 32). Ha scritto la seguente mail:

«Con il DDL approvato il 4/11/2021 in materia di concorrenza e mercato il Governo si è mosso in modo molto invasivo sui servizi pubblici locali, nessuno escluso: dai trasporti ai rifiuti e all’acqua potabile. // Il principio ispiratore dell’intervento è di nuovo il liberismo spinto, come se la gestione mercantile, adottata sistematicamente negli ultimi lustri e, soprattutto, durante la pandemia, non avesse dimostrato chiaramente il fallimento della ricetta. Ciò nonostante viene esaltata la privatizzazione dei servizi e l’affidamento al mercato come il toccasana “per rafforzare la giustizia sociale, la qualità e l’efficienza dei servizi pubblici, la tutela dell’ambiente e il diritto alla salute dei cittadini” (articolo 1) (sic!). // Se il DDL verrà tradotto in legge dal Parlamento nessuno dei servizi locali potrà rimanere nella gestione pubblica. Nessuna eccezione è prevista, neppure per l’acqua: il servizio idrico è equiparato in tutto e per tutto a qualunque altro servizio gestito in forme e con finalità puramente mercantili… (omissis)».

 

Ritornando al criterio guida che si dovrà seguire in concreto nei singoli settori, io ritengo che esso sia costituito dal principio sostanziale di eguaglianza, che, infine, come disse bene Norberto Bobbio poco più di un quarto di secolo fa, è ciò che distingue una politica di destra da quella di sinistra[2] (fermo restando – sia chiaro! – che non è che la Destra persegua solo politiche di diseguaglianza). 

A proposito debbo dire che spesso mi capita di sottolineare nei miei interventi sulla nostra Carta costituzionale la stretta correlazione che c’è tra libertà, eguaglianza e solidarietà (i rivoluzionari francesi ebbero il coraggio di parlare di fratellanza).

Esso rappresenta un trinomio inscindibile.

Se non tutti possono godere di certe libertà (quella personale o quelle di corrispondenza, di circolazione, di riunione, d’associazione, di religione, di espressione, di difesa) è chiaro che non c’è uguaglianza.

E se non c’è uguaglianza, è chiaro che c’è qualcuno che ha delle libertà o dei diritti o dei privilegi di cui altri non possono godere; ovvero ha dei doveri da cui altri sono esentati.

Ma perché anche il terzo termine si presenta come inscindibile rispetto agli altri due?

Mi sembra che la risposta si possa trovare implicitamente nel comma 2 dell’art. 3 della nostra Costituzione: «E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

I Costituenti ci dicono, dunque, che non è sufficiente che la libertà e l’uguaglianza dei cittadini sia affermata in norme di diritto, ma dev’essere effettiva; poiché se nei fatti vi sono ostacoli di ordine economico (la povertà) e sociale (si pensi alla carenza di servizi, alla carenza di lavoro), la libertà e l’uguaglianza, pur affermate dalla legge, sono in realtà pregiudicate e questo pregiudizio si riflette negativamente, come afferma la stessa norma costituzionale, sul «pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Sennonché, intervenire su questi aspetti significa, in concreto, attuare una politica di solidarietà, quella solidarietà a cui si riferisce, con richiamo – si noti – ancora una volta alla persona, proprio l’art. 2 Cost., che dispone: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»[3].

Alla luce di quanto sin qui detto, possiamo dire, dunque, che anche il terzo termine del trinomio è unito inscindibilmente agli altri due: non vi possono essere, infine, una vera libertà ed una vera uguaglianza, in assenza di una solidarietà politica, economica e sociale, in primis attraverso la partecipazione alla spesa pubblica (art. 53 Cost.), la difesa della Patria nelle sue varie declinazioni (art. 52 Cost.), l’assoggettamento ad alcuni oneri sanitari (art. 32 Cost.) e gli obblighi di soccorso (art. 593 cod. pen.). Sotto altro profilo, non vi possono essere una vera libertà ed una vera uguaglianza senza una politica di solidarietà nelle scelte legislative che riguardano i diritti umani e le scelte economiche e sociali e che abbia cura di costruire un tessuto culturale improntato a tale valore.

Forse a questi concetti pensava Carlo Rosselli, martire antifascista, quando, nel 1928, legava inscindibilmente i termini di «libertà e giustizia».

Giustizia, ovviamente, non come il prodotto dell’attività dell’Amministrazione giudiziaria a fronte della violazione di una norma, ma, prioritariamente, come finalità e prodotto dell’attività del legislatore nella complessa opera architettonica in cui consiste l’attività politica.

«Libertà e giustizia», che Rosselli definiva unitariamente come «un’idea innata che giace, più o meno sepolta dalle incrostazioni dei secoli, al fondo d’ogni essere umano; sforzo progressivo di assicurare a tutti gli umani una eguale possibilità di vivere la vita che solo è degna di questo nome, sottraendoli alla schiavitù della materia e dei bisogni che oggi domina il maggior numero; possibilità di svolgere liberamente la loro personalità, in una continua lotta di perfezionamento contro gli istinti primitivi e bestiali e contro le corruzioni di una civiltà troppo preda al demonio del successo e del denaro»[4]. Ed affermava poco dopo: «La libertà non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dalla emancipazione dal morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero fantasma. L’individuo in tal caso è schiavo della sua miseria, umiliato dalla sua soggezione … Libero di diritto, è servo di fatto»[5].

Notate come Rosselli nel ’28 anticipava già i contenuti degli artt. 2 e 3 Cost.!

Qui concludo, non senza, però, un’ultima riflessione riguardo all’Europa.

Grazie al cammino indicato dai visionari di Ventotene, dopo la Seconda Guerra mondiale è iniziato il lungo percorso che ci ha portato all’Unione.

E’ un percorso che ha assicurato a noi europei occidentali (a partire da 600/700 chilometri da qui verso Est purtroppo e tragicamente non è stato così) un periodo di pace che mai fu conosciuto nella storia.

Penso che a noi italiani ha dato anche l’occasione di introdurre delle riforme di non poco conto che forse da soli non avremmo ottenuto, data la forza di certi centri di potere economico.

Ma il cammino dell’Unione è ancora lungo sul piano dell’attuazione di politiche di attenzione alle esigenze dei cittadini.

[1] Eco, Il fascismo eterno, Milano, 2018, p. 18..

[2] Cfr. Bobbio, Destra e Sinistra, Roma, 2014 (la prima edizione del libretto è del 1994).

[3] Su tale correlazione cfr. Corte cost., 7 giugno 2019, n. 141.

[4] Rosselli C., Socialismo liberale, Torino, 1997, p. 82

[5] Rosselli C., op. cit., p. 90 e segg.

Enrico Bertè

14 Maggio 2019

Bertè primo piano

Ci mancherà la preziosa testimonianza di Enrico Bertè che, per essersi rifiutato di collaborare con i nazisti, dovette affrontare i lager in Germania.
Il suo gesto coraggioso, che gli valse il conferimento di molte onorificenze, tra cui quella di Volontario della libertà e di Cavaliere della Repubblica, è per tutti noi una grande lezione di vita.

Anpi Malnate ricorda con rimpianto l’architetto-poeta Bertè, ringraziandolo per l’impegno da lui profuso nel raccontare nelle scuole le atroci malvagità commesse dal nazifascismo.

Omaggio alla memoria di Mauro

19 Giugno 2017

La nostra sezione é intitolata a Giordano Turra che tutti conoscevano come Mauro…

Fin da giovanissimo, ha condiviso gli ideali e i principi dell’Antifascismo e della Resistenza partecipando attivamente alla vita della sezione A.N.P.I. di Malnate, frequentata da coloro che si erano sempre opposti al regime e che erano sopravvissuti alla “lotta di liberazione”:
Corradi Gianfranco, Bettinelli Aldo, Bernasconi Pasquale, Rigamonti Giacomo, Acerbis Claudio, Soldati Vittorio, Tassan Giovanni, Lazzari Raimondo, Guaiti Renato, Canisio Pasquale, Lazzari Elena, Giorgi Felice, Franzi Celeste, Malinverno Lino, Magnaghi Giuseppe e con loro molti altri uomini e donne.
Dopo circa due anni dalla morte di Corradi, ultimo Presidente Partigiano Combattente della Sezione A.N.P.I. di Malnate, Mauro é stato eletto Presidente, ruolo che ha rivestito fino alla sua prematura scomparsa avvenuta nel maggio 2007.
Ha da sempre creduto nell’importanza di trasmettere alle nuove generazioni i valori dell’Antifascismo e della Resistenza, fondamenta su cui si basa la nostra democrazia, valorizzando il sacrificio di una generazione che si é battuta per i propri ideali e per la libertà.
Ha instaurato una stretta collaborazione con le scuole promuovendo gite culturali nei luoghi in cui avvennero le lotte partigiane come Monte S. Martino, Fondotoce e Casa della Resistenza.
Di certo non dimentichiamo la sua dote innata di organizzatore che ha portato nei luoghi della memoria non solo gli studenti ma centinaia di malnatesi.

Ciao Mauro …. sentiamo ancora la tua mancanza!!!