Buongiorno a tutte e a tutti,
ho accettato di intervenire come oratore ufficiale, ritenendolo un dovere prima ancora che un onore, non senza qualche titubanza iniziale dovuta al senso di inadeguatezza di fronte al significato profondo di questa ricorrenza. Ho una formazione giuridica e credo che certi temi debbano rimanere esclusivo appannaggio di chi può affrontarli con rigore storico-scientifico.
Tuttavia, la richiesta, avanzatami anche in qualità di Presidente del Consiglio comunale, organocollegiale soppresso dal fascismo con la riforma podestarile, mi ha indotto a riflettere su quanto sia doveroso per tutti onorare il debito di riconoscenza verso la Resistenza. Ho accolto, pertanto, la proposta dell’ANPI di Malnate e del suo Presidente Germano Corti, a cui desidero rivolgere un caloroso ringraziamento.
Anche io, come tanti, ho avuto un nonno partigiano, Vilmo Guicciardi. Originario di Mirandola, era nato nel 1923 e l’8 settembre 1943, quando il “proclama Badoglio” rese pubblico l’armistizio firmato qualche giorno prima a Cassibile, era appena ventenne. Non poté, però, abbandonarsi alla spensieratezza di quell’età, trovandosi improvvisamente spaesato, nel bel mezzo di una guerra a cui anche lui aveva preso forzatamente parte come militare di leva. Come altri, fortunatamente molti, fece una scelta che oggi giudicheremmo avventata: abbandonato l’esercito, si unì a una brigata partigiana della Bassa modenese. Quella decisione si rivelò vincente. Oggi possiamo dirlo con estrema gratitudine per mio nonno e per i tanti nonni e le tante nonne che dimostrarono il loro valore, dissimulato sotto le spoglie di sprovveduti ventenni, combattendo l’oppressore fascista e l’invasore nazista fino a pagare, in molti casi, con la loro vita e con quella dei loro cari.
Cinque di questi ragazzi tennero alto l’onore di Malnate nella resistenza partigiana e pare doveroso ricordarli anche quest’anno. Sono Ermanno Besani, Achille Motta, Giuseppe Brusa, Emilio Maccazzola e Bartolomeo Bai.
Quest’anno, però, il 25 aprile è profondamente diverso. Viviamo momenti di fortissima preoccupazione – anzi, di vera e propria paura – per le sorti dell’Europa e del mondo, mentre la forza bruta delle armi già dilania l’Ucraina da ormai due mesi, causando centinaia di morti, tra i quali molti bambini, devastazione e un’ondata di profughi. Per la seconda volta in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo i conflitti nei Balcani degli anni ’90, siamo di fronte a una guerra in piena regola. Una guerra in cui è innegabile la presenza di un aggressore e di un aggredito, di chi ha imbracciato le armi per attaccare e di chi lo ha fatto per difendersi.
È parimenti innegabile che le cause di un conflitto non possano essere esaminate con una chiave di lettura semplicistica e riduttiva, ma debbano essere approfondite minuziosamente. Questo, ovviamente, non per offrire inammissibili giustificazioni alle responsabilità di cui dovrà rispondere l’aggressore di fronte alla nazione ucraina e alla comunità internazionale, ma per capire e non ripetere in futuro gli errori del passato, senza dimenticare che la guerra è terribile, ma fa comodo a molti, anche ad alcuni che, quando non si trovano dalla parte degli aggressori, puntano il dito contro l’aggressore di turno, senza peraltro muoverlo, quel dito, a difesa delle vittime.
Di fronte a questo conflitto, abbiamo tutti il dovere di fare qualcosa. Chi ci governa deve lavorare alacremente nell’unica direzione sensata: favorire la deposizione delle armi con uno sforzo diplomatico rafforzato dall’impegno ineludibile dell’Unione Europea. La strada deve essere quella di un rafforzamento dell’Unione che vada di pari passo con la costruzione di una vera politica di difesa comune, nella prospettiva della creazione di un esercito europeo. Questa è la via più volte indicata, tra le altre, dall’autorevolissima voce del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Purtroppo, assistiamo a scelte orientate nella direzione opposta. Se nessuno deve permettersi di mettere in discussione il diritto dell’Ucraina di difendersi, anche con le armi, abbandonarsi a una corsa agli armamenti sotto l’ombrello della Nato è decisione quanto mai pericolosa. Esacerbare ulteriormente le posizioni in campo, cedendo a un bellicistico afflato che andrebbe semmai contenuto, significa gettare benzina sul fuoco, innescando meccanismi i cui parossistici sviluppi potrebbero condurre rovinosamente verso un terzo conflitto mondiale.
«Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2 per cento del Pil per l’acquisto di armi come risposta a questo che sta accadendo, pazzi! La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti […] Con la guerra tutto si perde […]». Sono parole di Papa Francesco, non di uno sfegatato pacifista dalle simpatie anarchiche.
Anche noi persone comuni possiamo fare qualcosa. In primo luogo, dobbiamo astenerci dall’indulgere licenziosamente all’odio nei confronti di Vladimir Putin. Anche se il reato di offesa all’onore dei Capi di Stato esteri è stato abrogato sin dal 1999 e sarebbe quindi lecito, oltreché facile, prodursi in un creativo elenco di ingiuriosi epiteti per apostrofare l’invasore dell’Ucraina, così faremmo soltanto il suo perverso gioco, gettando alla rinfusa semi di odio da cui rischiano di germinare pregiudizi, discriminazioni e sentimenti acrimoniosi. Se la condanna è doverosa, piuttosto che cedere al seducente fascino degli sfoghi sterili dobbiamo produrci in gesti di sostanza.
L’accoglienza ai profughi – oggi improvvisamente decantata anche da chi in passato la ostacolava sfoderando il razzismo più bieco – ma anche l’aiuto alle tante organizzazioni non governative che si adoperano a sostegno della popolazione rimasta in Ucraina per necessità o per scelta.
Ancora, è nostro compito rammentare chi, nel passato, guardava con simpatia alla figura di Vladimir Putin, allo scopo di sfruttarne il dispotico carisma per fini propagandistici. Non dallo scorso febbraio, infatti, la Russia ha un governo definito troppo semplicisticamente “illiberale” che, invece, è massimamente totalitario.
Davvero serviva la guerra in Ucraina? Davvero non bastavano l’annientamento della libertà di stampa, le uccisioni di giornalisti, gli avvelenamenti di avversari politici, le armi imbracciate contro altri Stati?
Riflettere su questo dovrebbe aiutare a capire chi fossero davvero quelli che, forse, ammiravano queste derive tipicamente dittatoriali e imperialistiche, evitando di addossare etichette pesanti a chi non le merita. Coloro che si esprimono per la pace e prendono netta posizione contro la guerra e contro la corsa agli armamenti non possono e non devono essere tacciati di intollerabili simpatie putiniane.
Il ripudio della guerra è consacrato dalla Costituzione della Repubblica Italiana e, se è vero che la stessa Costituzione afferma la sacralità del dovere di difesa della Patria, altrettanto vero è che l’obiezione di coscienza è ormai un diritto sacrosanto riconosciuto in svariati ambiti in Italia, anche e soprattutto in relazione all’utilizzo delle armi. Questo implica che la difesa della Patria possa essere anche disarmata, persino in caso di guerra.
Purtroppo, nel tritacarne mediatico rischiano di finire in molti. Sono state gettate ombre pesanti anche sull’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, approfittando di alcuni interventi del suo Presidente nazionale talvolta sorprendentemente imprudenti e talaltra volutamente travisati. Questi attacchi sono arrivati non da chi ha spesso infangato la Resistenza riducendola a quei soli episodi bui che, comunque, vanno stigmatizzati senza mezzi termini, ma da opinion maker sedicenti democratici che sembrano sempre più propugnare una lettura a senso unico della realtà, come se la diversità di opinioni argomentate fosse inammissibile, al punto che si arriva persino ad affibbiare al prossimo dichiarazioni e visioni lontane da quelle in concreto espresse, con un atteggiamento manicheo poco adatto a chi dovrebbe stimolare l’autonoma riflessione personale.
Non da oggi, purtroppo, la Resistenza è preda di spinte revisionistiche che trovano sponde insospettabili e si rafforzano proprio in quello che non esito a definire relativismo storico.
Mi è capitato di raggelare di fronte a equazioni non solo semplicistiche, ma totalmente sbagliate, che dimostrano come l’ignoranza sia un circolo vizioso da cui è difficile uscire. Partigiano non significa comunista. Partigiano significa “riferito a una parte”, cioè, per estensione, persona che prende una posizione: nel caso di specie, posizione contro il nazifascismo.
Parlare della Resistenza come di un fenomeno ascrivibile alla sola ideologia comunista significa ignorare che nelle fila dei partigiani militarono anche socialisti, azionisti, repubblicani e molti cattolici, tra i quali mi si lasci ricordare Tina Anselmi, più tardi parlamentare democristiana e prima donna a ricoprire la carica di ministro della Repubblica Italiana.
Ancora, vi furono i cosiddetti “partigiani badogliani” o “azzurri”, che non presero parte al Comitato di Liberazione Nazionale, ma diedero un solido contributo alla guerra di liberazione e alla produzione letteraria di Beppe Fenoglio, che proprio in tali formazioni visse la sua esperienza partigiana. L’unica equazione possibile deve essere quella tra Resistenza e antifascismo.
Una Resistenza alimentata anche da tante persone comuni, che presto o tardi ebbero modo di comprendere come il regime fascista avesse tradito qualsiasi ideale patriottico, semmai ne avesse davvero avuto uno. Tra costoro si possono citare, ciascuno con un contributo diverso nei tempi e nei modi, il Brigadiere dell’Arma dei Carabinieri Salvo D’Acquisto, il commerciante Giorgio Perlasca, il funzionario dell’ufficio anagrafe del Comune di Varese Calogero Marrone, i sacerdoti don Pietro Pappagallo e don Primo Mazzolari.
Ho elencato solo alcuni nomi, senza nulla volere sottrarre agli altri. Per comprendere quanto composito sia stato il movimento antifascista, basti pensare, tornando agli aspetti più marcatamente politici, che non v’era accordo nemmeno sulla forma di governo che si sarebbe dovuta sviluppare dopo la Liberazione: questa sarebbe stata definita in parte da un passaggio referendario da cui uscì vittoriosa l’opzione repubblicana e in parte dall’Assemblea Costituente che scelse il parlamentarismo, a rimarcare, dopo un ventennio di partito unico e di culto della personalità, come le decisioni pubbliche debbano essere sempre prese collegialmente.
Oggi, più che mai, dobbiamo impegnarci per riconoscere quello spirito patriottico che la Resistenza ha saputo accendere nel popolo italiano contro ogni aspettativa del regime. Proprio la capacità di unirsi verso un obiettivo comune senza curarsi delle divergenze è l’insegnamento più prezioso che possiamo trarre.
L’unità politico-istituzionale è di basilare importanza. Si badi bene: unità intesa non come appiattimento e annientamento delle differenze e delle sfumature di pensiero, ma come valorizzazione di quelle sfumature.
Senza un solido sostrato valoriale comune, senza un contratto sociale alla base, nessuna proposta politica potrebbe risultare credibile. Eppure, vediamo oggi forze politiche che si fronteggiano con atteggiamento belligerante a ridosso delle elezioni e poi, con grande sorpresa degli elettori di cui avevano stuzzicato i peggiori istinti, stringono alleanze postelettorali, rinnegando l’idea che un sostrato valoriale comune sia fondamentale e, al contempo, accantonando le importantissime sfumature di pensiero, anziché riconoscerne il ruolo di asse portante della democrazia. Esattamente l’opposto di ciò che è auspicabile.
Nella Resistenza, invece, era viva la consapevolezza che muovendo da punti di vista diversi si stesse cercando di raggiungere un comune traguardo, destinato a essere nuovo punto di partenza.
La Democrazia cristiana e il Partito comunista erano quanto di più antitetico si potesse immaginare, eppure hanno saputo unirsi e, in seguito, contrapporsi lealmente, o addirittura collaborare, perché entrambi consapevoli di quanto avere un avversario intelligente e vivacemente critico sia più importante che avere un alleato prono e ossequioso. Così hanno saputo fare, in modi diversi, gli altri partiti dell’arco costituzionale.
Ecco di questa capacità di fare fronte comune oltre ogni differenza rinsaldando l’autentico spirito democratico dobbiamo ricordarci in quest’epoca in cui le accuse, i sospetti e la diffidenza sembrano dominare.
Non serve a nulla demonizzare l’avversario, se poi questi si rivela capace di presentarsi in modo accattivante all’elettorato nelle democratiche competizioni elettorali, mentre chi lo demonizza finisce per ridursi soltanto a puntare il dito senza offrire un’autentica alternativa, svilendo così la propria proposta politica. Figuriamoci, poi, se con quello stesso avversario demonizzato ci si ritrova nella medesima maggioranza di governo.
Impariamo dalla Resistenza, impariamo ad amare il pluralismo, la collegialità e il dialogo. Impariamo a rispettare le idee diverse dalle nostre e a comprendere che la democrazia si nutre di argomentazioni, di proposte strutturate, di un’idea di Italia da sottoporre alla cittadinanza in modo convincente e non di demonizzazione di ciò che è diverso né di proposte estemporanee permeate di populismo che mirano al risalto mediatico senza alcuna valutazione in chiave prospettica.
Impariamo a fare questo e avremo saputo dare concretezza alle parole di Piero Calamandrei “Ora e sempre Resistenza” che vengono spesso adoperate quale autorevole orpello di discorsi intrisi di retorica.
Impariamo a fare questo e avremo davvero fatto qualcosa di utile per prevenire qualsiasi rigurgito di fascismo, sempre pericolosamente possibile.
Viva la Resistenza, viva il 25 aprile, viva l’Italia libera.